No al velo islamico al lavoro? Non sempre è discriminazione

Il divieto di indossare il velo islamico sul posto di lavoro, imposto da un imprenditore attraverso una norma interna, non sempre rappresenta una discriminazione diretta, vietata dunque dalla normativa europea.
A stabilire il principio di massima, con sentenza del 14 marzo 2017, è stata la Corte di Giustizia UE, chiamata a decidere in merito a una controversia sorta tra una dipendente di religione islamica e la società presso la quale prestava lavoro.

La causa è nata dal mancato rispetto, da parte della dipendente, del divieto posto dalla società ai propri dipendenti di indossare sul luogo di lavoro abbigliamenti che connotassero le loro convinzioni religiose, filosofiche o politiche.
Ebbene, con un provvedimento che rappresenta indubbiamente un “precedente” rilevante, la Corte di Giustizia UE – adita dal giudice nazionale – è stata chiamata a pronunciarsi nello specifico sulla questione pregiudiziale: ossia sull’interpretazione della direttiva UE 2000/78, relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. Si è trattato in sostanza di stabilire se il divieto posto dal datore di lavoro configurasse una discriminazione diretta, e quindi vietata, o meno.
La Corte ha risposto negativamente, rimettendo però al giudice nazionale la valutazione sulla discriminazione “indiretta” eventualmente configurata dal divieto imposto ai dipendenti.

In altre parole, la Corte ha stabilito che spetta al giudice nazionale valutare se la norma comporti una disparità di trattamento indiretta (ai sensi della direttiva 2000/78), laddove si dimostri che il divieto, apparentemente neutro, arrechi invece un particolare svantaggio ai dipendenti che aderiscono a una data religione. E questo senza che il divieto stesso sia giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento di una neutralità politico-religiosa da parte del datore di lavoro.