Il lavoratore può legittimamente chiedere, sotto forma di rimborso, i tributi versati dal datore di lavoro nelle ipotesi previste dalla legge. In questo caso la legittimazione del lavoratore – che diventa sostituto d’imposta – deriva dalla sovrapposizione tra il ruolo di impiegato e quello di contribuente.
A ribadire il principio è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23142 depositata il 4 ottobre 2017.
Il caso nasce dall’istanza presentata da un lavoratore all’Amministrazione Finanziaria, volta ad ottenere il rimborso del 90% dell’Irpef versata per gli anni 1990, 1991, 1992 in favore delle popolazioni colpite dal sisma del 1990. Il lavoratore, a seguito del silenzio dissenso dell’Amministrazione, ha quindi portato l’istanza all’attenzione della Commissione Tributaria provinciale.
L’Agenzia delle Entrate, chiamata a dar seguito alla richiesta del lavoratore, ha impugnato la decisione dell’Amministrazione presso la Commissione Tributaria regionale. Dopo un lungo iter, che ha visto l’accoglimento della richiesta del lavoratore e l’impugnazione dell’Agenzia delle Entrate, la Corte di Cassazione, con la sentenza del 4 ottobre, ha infine rigettato il ricorso dell’Agenzia, accogliendo definitivamente la richiesta del lavoratore.
Il lavoratore, ha chiarito la Corte, è dunque legittimato a richiedere il rimborso dell’imposta, anche se materialmente non è stata corrisposta dallo stesso, bensì dal suo titolare, attraverso le ritenute alla fonte con l’obbligo di rivalsa.
A sostegno della tesi, la Corte ha portato il disposto dell’art. 23 del Dpr 600/1973, che precisa che il datore di lavoro è chiamato a versare il tributo per conto dell’impiegato, e il disposto dell’art. 38 del Dpr 602/1973, laddove si stabilisce che il dipendente, così come il suo datore, sono autorizzati a richiedere il rimborso della somma non dovuta e impugnare l’eventuale rifiuto.
Alla base del principio, la concomitanza di ruoli che si verifica in questi casi tra il ruolo passivo del beneficiario e quello attivo del contribuente.