Vaccino: come orientarsi tra diritti e doveri del lavoratore e del datore di lavoro

Può un datore di lavoro imporre il vaccino a un suo dipendente? E cosa può fare l’imprenditore a fronte del rifiuto del lavoratore a vaccinarsi contro il Covid-19? Sono, queste, domande ormai piuttosto frequenti in ambito lavorativo, a fronte dell’emergenza sanitaria e della distribuzione dei vaccini in tutta Italia. La materia, tuttavia, resta molto delicata, poiché interessa sì il mondo del lavoro ma anche quello sanitario e, infine, la sfera personale del lavoratore.

E’ anche per dare un concreto sostegno agli imprenditori che recentemente, la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro ha emanato un approfondimento sui protocolli anticontagio e sui vaccini con le indicazioni per il datore di lavoro. Si tratta, in sostanza, di una raccolta delle più frequenti domande con relative risposte alla luce della normativa vigente (le cosiddette “FAQ”) in questo ambito.

Ebbene, i primi due temi affrontati dalla Fondazione Studi sono proprio quelli riguardanti la vaccinazione da parte del lavoratore dipendente. “Il datore di lavoro – si legge nella prima delle FAQpuò imporre il vaccino al lavoratore in base alle previsioni normative vigenti?”.

L’articolo 2087 del Codice Civile – ricordano in proposito i Consulenti del Lavoro –, combinato con l’articolo 41 della Costituzione, sembrerebbero portare ad una risposta affermativa: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Inoltre, “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
“Tuttavia – prosegue la Fondazione –, come più volte ripreso, l’articolo 32 della Costituzione prevede che il cittadino sia libero di scegliere i trattamenti sanitari a cui sottoporsi, a meno che questi non siano resi obbligatori per disposto normativo (riserva assoluta di legge). Inoltre, negli ambienti di lavoro ove sia applicabile il Titolo X del D.Lgs. n.81/2008 e s.m.i. (Esposizione ad agenti biologici), l’articolo 279 del citato decreto prevede che il datore di lavoro “metta a disposizione” efficaci vaccini in ambiente di lavoro per il tramite del medico competente”.

Concludono quindi i Consulenti del Lavoro: “Pertanto, se gli articoli 2087 del Codice Civile. e 41 della Costituzione lasciano intendere in capo al datore di lavoro la possibilità di considerare il vaccino come un valido strumento di ‘gestione sicura’ della propria impresa, gli articoli 32 Cost. e 279 D.Lgs. n. 81/2008 riducono fortemente questo potere, prevedendo la possibilità e non l’imposizione di tale misura”.

Strettamente connessa alla prima domanda è la seconda, anch’essa relativa al vaccino: “Come comportarsi di fronte al rifiuto del lavoratore di vaccinarsi?”. “Premettendo che il datore di lavoro non può essere informato in merito a dati personali e particolari (ex sensibili) inerenti la sfera sanitaria del lavoratore – annota la Fondazione Studi –, il rifiuto del lavoratore può avere come conseguenza la sottoposizione del lavoratore stesso alla visita medica per la verifica dell’idoneità, da parte del medico competente, in base al protocollo sanitario relativo alla specifica mansione. Ove il medico attesti la temporanea inidoneità alla mansione il datore di lavoro deve in alternativa valutare se l’attività svolta dal lavoratore possa essere gestita in modalità smart working oppure se il lavoratore possa essere adibito ad altre mansioni per le quali non si renda necessaria l’idoneità lavorativa”.

Nel caso in cui ciò non possa avvenire, “sempre compatibilmente con le prescrizioni del medico competente, si potrebbe ipotizzare lo spostamento temporaneo del lavoratore ad altra unità lavorativa se, da elaborazione DVR Covid, risultasse un’esposizione-prossimità-aggregazione con valori inferiori rispetto alla sede di origine del lavoratore. Nel caso in cui non vi siano alternative rispetto alle ipotesi sopra descritte, si potrebbe procedere con la sospensione del lavoratore”.

Al riguardo, aggiungono i Consulenti, “è giusto precisare che solo in extrema ratio il datore di lavoro può procedere con la sospensione del lavoratore quale misura estrema di tutela della salute dello stesso. In questo caso il datore di lavoro non sarebbe tenuto a corrispondere la retribuzione”.

L’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ricorda infatti la Fondazione, “sostiene che il datore di lavoro non sia tenuto al pagamento della retribuzione qualora le prestazioni lavorative non vengano prestate per divieto derivante dalle prescrizioni del medico competente (cfr. Tribunale di Verona, Sent. n. 6750/2015; Cass., n. 7619/1995)”.